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Tribunale di Sanremo: Sentenza n.319 del 10 gennaio 2001

La tutela penale dei marchi e dei segni distintivi è a garanzia della fede pubblica più che dell'affidamento dell'acquirente (Tribunale di Sanremo, sentenza 10 gennaio 2001, n. 319)

REPUBBLICA ITALIANA - IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Sanremo

in composizione monocratica in persona del dr. Massimiliano RAINIERI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel procedimento penale a carico di: …, nato a … (…) il …/…/…, elettivamente domiciliato in Sanremo presso lo studio dell'avv. ........ del foro di Sanremo, LIBERO – CONTUMACE IMPUTATO a) del reato di cui agli artt. 81 cpv 648 c.p. per avere ricevuto al fine di trarne profitto, da persona rimasta sconosciuta, gli oggetti con marchio contraffatto, indicati al capo b); b) artt. 81 cpv, 474 c.p. per avere posto in vendita o comunque detenuto per vendere oggetti con marchio di fabbrica contraffatto: un borsone L. VUITTON. In Sanremo il 18/08/1998. Con la recidiva specifica.

MOTIVAZIONE

L'accusa non può ritenersi fondata. La condotta, in sintesi, è rappresentata dalla detenzione di un borsone Luis Vuitton, ovviamente contraffatto, da parte del cittadino senegalese …: in essa il Pm ha ravvisato il concorso materiale delle fattispecie ex artt 474 e 648 cp.

Di recente (Cass. SSUU sent. n. 23427 del 7.6.2001, ud. del 9.5.2001) le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno affrontato proprio il quesito concernente "la possibilità o meno di concorso tra il reato di ricettazione e quello di commercio di prodotti con segni falsi".

E lo hanno risolto in senso positivo.

Chiarendo, tra l'altro, che "l'apposizione di un segno contraffatto su un bene, fattispecie delittuosa ai sensi dell'art 473 cp, funge da fonte rispetto alla cosa così realizzata", che "i destinatari ricevono la cosa con un attributo che essa non potrebbe avere", e che, dunque, "l'apprensione di entità con segni o marchi falsificati è, in astratto, riconducibile alla ricettazione".

Acquisito l'insegnamento, tuttavia, occorre accertare, in concreto, se si siano integrati gli estremi oggettivi e soggettivi dei reati in esame. E la risposta negativa si impone per una pluralità di ragioni. Tra il caso esaminato dalle Sezioni Unite e quello di specie, in fatto, c'è una differenza di sicuro rilievo. Là si trattava di cinture da jeans con marchio contraffatto, oggetti casuals di semplice realizzazione e di esiguo valore, quindi facilmente confondibili con gli originali che, comunque, sono destinati ad un consumo di massa.

Qui, all'opposto, si tratta di imitazioni, vili e dozzinali, di borse elegantissime e famose, ovvero di beni di lusso cui è coessenziale la destinazione ad una clientela selezionata.

E le massime d'esperienza, con riguardo a beni di lusso come quello in esame, ci consegnano una realtà in cui, accanto al mercato dell'originale, si sviluppa quello delle sue imitazioni, più o meno volgari.

Ma sono mercati separati e privi di interferenze. Perché nettamente distinti. Quanto ai prezzi, irrimediabilmente lontani: il falso si acquista con qualche decina di migliaia di lire mentre l'originale richiede esborsi di milioni. Quanto all'intrinseco regio dei materiali utilizzati, essendo impensabile che un oggetto infinitamente più costoso possa avere caratteri qualitativi comparabili con quello falso.

Quanto al venditore, che nel primo mercato è quasi sempre un extracomunitario il quale offre e vende la sua mercanzia per strada mentre nell'altro è un esercizio commerciale, di solito di altrettanto prestigio delle griffes che distribuisce. E quanto al compratore, giacchè chi acquista il bene di lusso ricerca un tratto di distinzione e rifugge dalle imitazioni che appagano invece chi le insegue per simulare un più elevato status consumistico, ma non vuole, o non può, pagare quel che si pretende per il prodotto autentico. Senza trascurare il fenomeno, anch'esso notorio, dei collezionisti di falsi.

Quindi non si lede l'affidamento dei cittadini sugli indicatori di provenienza. Il compratore è consapevole di acquistare un falso, anzi è proprio quello che cerca: è un comportamento interessante sotto il profilo sociologico e psicologico ma del quale, in questa sede, non resta che prendere atto. Il produttore, dal canto suo, non può lamentare un danno diretto da sottrazione o sviamento di clientela: ciò avverrebbe soltanto se il falso, oltre ad essere un'imitazione quasi perfetta, o comunque confondibile, fosse venduto come autentico in un comune esercizio commerciale, al prezzo di listino, o magari ad un prezzo leggermente inferiore per catturare qualche cliente in più.

Né si scalfisce l'immagine commerciale del prodotto: anzi, poiché si imitano soltanto cose di pregio, l'esemplare forse si esalta proprio nel momento in cui riesce a suscitare il falso.

Quello descritto è il dato fattuale che va raffrontato con il dato normativo di riferimento.

Il principio di offensività, per opinione autorevole e condivisibile, ha rango costituzionale. Anzitutto, in quanto il diritto supremo della libertà personale, ex art 13 Cost., non è intoccabile dalla sanzione penale detentiva - o anche pecuniaria, poichè convertibile - ove non si leda alcun bene giuridico.

Ed, inoltre, perché, se si incriminassero fatti di mera disubbidienza, la pena diverrebbe misura esclusivamente preventiva, che colpisce la pericolosità dell'agente ed usurpa, quindi, le funzioni proprie della misura di sicurezza, in contrasto con gli artt. 25 e 27 Cost. che le distinguono, assegnando ad esse diverse finalità. La necessaria offensività, ribadita a livello ordinario dall'art. 49 cp, dunque, da un lato, serve ad interpretare in chiave d'offesa i reati in cui questa è elemento implicito o che, comunque, possono così reinterpretarsi senza violare il principio di legalità; dall'altro, contribuisce a costruire una nozione di reato come illecito tipico, alla cui tipicità, insieme agli altri requisiti strutturali, ossia condotta, evento materiale e rapporto causale, appartiene anche l'offesa al bene protetto.

In sede giurisprudenziale, in applicazione del principio offensività, è ormai divenuta incontroversa l'affermazione della non punibilità del falso innocuo, ossia inidoneo a vulnerare l'interesse tutelato, o grossolano, cioè ictu oculi riconoscibile.

E, con particolare riferimento alla contraffazione, si è chiarito: "In tema di commercio di prodotti aventi marchi o segni distintivi contraffatti o alterati, art. 474 cp, il reato e' configurabile, qualora la falsificazione, anche imperfetta e parziale, sia idonea a trarre in inganno i terzi, ingenerando errore circa l'origine e la provenienza del prodotto e, quindi, la confusione tra contrassegno e prodotto originali, e quelli non autentici. La contraffazione grossolana non punibile è soltanto quella che è riconoscibile ictu oculi, senza necessità di particolari indagini, e che, si concreta in una imitazione così ostentata e macroscopica per il grado di incompiutezza, da non poter ingannare nessuno (Cass. Sez. V sent. n. 3336 del 16.3.2000, ud. 26.1.2000).

E ancora: "Un marchio contraffatto può trarre in inganno un compratore, così da integrare, in caso di vendita della merce, il reato ex art. 474 cp solo se la provenienza prestigiosa del prodotto costituisce l'unico elemento qualificatore o comunque quello prevalente per determinare nell'acquirente di media esperienza la volontà di acquistare il prodotto stesso.

Qualora viceversa altri elementi del prodotto, quali l'evidente scarsità qualitativa del medesimo o il suo prezzo eccessivamente basso rispetto al prezzo comune di mercato, siano rivelatori agli occhi di un acquirente di media esperienza del fatto che il prodotto non può provenire dalla ditta di cui reca il marchio, la contraffazione di quest'ultimo cessa di rappresentare un fattore sviante della libera determinazione del compratore" (cfr. Cass. sez. V sent. n. 2119 del 23.2.2000, ud. del 17.6.1999).

Si tratta di letture chiare, coerenti con il principio di offensività e riferite a beni giuridici non vaghi ma ben definiti. Anzi, sembrano inficiate da contraddizione insanabile le massime di segno contrario in cui, ricondotta la fattispecie incriminatrice ai reati di pericolo, dapprima si afferma che "è volta a tutelare, in via principale e diretta, non la libera determinazione dell'acquirente ma la pubblica fede, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi o segni distintivi, che individuano le opere dell'ingegno o i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione", e poi si conclude - come se libera determinazione e affidamento dei cittadini non fossero indissolubilmente connesse - che "non può parlarsi ... di reato impossibile per il solo fatto che l'asserita grossolanità della contraffazione e le condizioni di vendita siano tali da escludere la possibilità che gli acquirenti vengano tratti in inganno" (Cass. Sez. II sent. n. 13031 del 14.12.2000, ud. 11.12.2000).

La questione, comunque, nel caso di specie, va oltre la problematico della grossolanità ed il reato ex art. 474 cp deve escludersi per ragioni ancor più radicali.

La tutela penale dei marchi e dei segni distintivi è finalizzata alla garanzia dell'interesse preminente della fede pubblica, più che a quello privato del soggetto che ne è titolare (Cass. sez. II sent. n. 6418 del 2.6.1998, ud. 26.3.1998).

In altri termini, marchi e segni ricevono protezione indiretta, in quanto indicatori di provenienza aziendale, mentre il rilievo primario è riconosciuto all'interesse sociale di impedire che si abusi della pubblica fede.

E ciò risulta evidente anche dalla collocazione della norma nel Titolo VII del Libro Secondo del Codice Penale, ossia tra i "Delitti contro la fede pubblica".

Ma qui, per i fatti concludenti evidenziati supra, si è in presenza di un falso esplicito e palese a tutti, in primis all'acquirente.

La lesione della pubblica fede è quindi esclusa in radice. E con essa l'integrazione della fattispecie ex art. 474 cp.

La conclusione non muterebbe considerando l'interesse del produttore non mero oggetto di tutela indiretta bensì collocato sullo stesso piano della fede pubblica, ovvero se si configurasse come reato plurioffensivo. Ad integrare un reato plurioffensivo, infatti, non basta la lesione di uno qualsiasi degli interessi protetti; al contrario, tutti devono essere necessariamente lesi.

Così, richiamando esempi classici, sarebbe inconcepibile una rapina senza una lesione, almeno potenziale, sia della libertà personale che del patrimonio; o una calunnia che leda la persona falsamente incolpata ma non la regolare amministrazione della giustizia, o viceversa.

Per incidens alcuni rilievi conclusivi.

Anzitutto, ove si ritenesse criminoso il falso in esame nessuna acrobazia giuridica, per quanto ardita, consentirebbe di evitare quel che la prassi giudiziaria costantemente nega, ossia l'incriminazione di chi lo acquista consapevolmente.

Inoltre, nella specie, si stenta a scorgere in che cosa si concreti l'offesa al produttore.

Esclusi, per le ragioni supra evidenziate, il danno diretto da sottrazione o sviamento di clientela e quello all'immagine, potrebbe forse ipotizzarsi che col tempo la diffusione del falso volgarizzi il prodotto autentico e lo privi del suo connotato di distinzione. Si tratterebbe, tuttavia, di un danno mediato, tutt'altro che scontato e occorrerebbe provare, quanto meno, il concreto pericolo che si verifichi. infine, ove un danno siffatto fosse accertato, poichè l'ostacolo della mancata lesione della fede pubblica non è in alcun modo superabile, si resterebbe comunque al di fuori della previsione ex art. 474 cp.

Si integrerebbe soltanto un illecito civile.

E - in mancanza di discipline incriminatrici ad hoc come quelle dettate per dischi, audio e video cassette o software - attribuirgli un presidio penale, pensato e dettato a protezione di altri interessi, si risolverebbe in una violazione del principio di tassatività. Il discorso svolto sull'art 474 c.p., data l'identità dell'interesse tutelato, non può che all'art. 473 c.p.

La condotta relativa a tale norma incriminatrice, in effetti, poiché non vi sono elementi concreti ed accertati che orientino altrimenti, non può che ritenersi proiettata verso lo stesso mercato del falso di cui si è discorso a proposito dell'art 474 c.p. E non sussistendo il reato presupposto, ovviamente, vien meno anche la ricettazione. L'epilogo, pertanto, è il proscioglimento dell'imputato da entrambe le imputazioni.

PQM

Visto l'art. 129 cpp, assolve … dai reati a lui ascritti perché il fatto non sussiste.

San Remo, 1 ottobre 2001.

Il Giudice Massimiliano Rainieri

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